domenica 5 gennaio 2014

FRANCESCO, L'ARGENTINO, IL GIULLARE DI DIO

clowmUn preludio che a qualcuno suona come una boccata d'ossigeno; ad altri, forse, come una fastidiosa soffiata di vento contrario. Una cosa rimane però certa, al netto di qualsiasi fraintendimento. Parola di papa Francesco: “il nostro sogno vola alto, oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche di laboratorio?” Che abbia spiato dentro qualche stanza parrocchiale o qualche ufficio di pastorale diocesana? Più probabile che da uomo capace e tutt'altro che ingenuo non esiti a riconoscere ciò che affligge maggiormente le nostre realtà parrocchiali: la fatica di trasmettere la passione a chi l'ha persa già da un pezzo. Tentare di far capire che quel passaggio fantastico – o quella proposta sublime che sognavamo fosse quella giusta – che li aveva fatti vincere mille volte non si può ripetere all'infinito. Insomma, potremmo dire che questo Papa non appoggia affatto una certa pastorale da “accanimento terapeutico” che ancora viaggia travestita da novità per certi ambienti parrocchiali, che ancora sopravvive rantolando qua e là. Forse che per troppo tempo la scelta è stata sempre e solo tra due possibilità: tra un atteggiamento difensivo e un atteggiamento offensivo. Dimenticando appieno la terza, forse quella più audace ed evangelica: il prendere l'iniziativa, l'aprire una via al Vangelo nelle condizioni che di tempo in tempo appaiono assai diverse e mutevoli. Aprire le finestre per rigenerare l'aria viziata dal tempo.
Non basta la “tratta delle novizie” e nemmeno i seminari che corrono il rischio di generare “mostri” (capita sempre nelle altre diocesi, ndr) per convertire i cuori a Cristo. Si tratta di risvegliare quelle braci di fuoco che se ne stanno sepolte sotto una coltre di cenere, quell'entusiasmo degli inizi – non privo di complicazioni e diatribe – ma capace di speranza e di futuro nelle vene della storia. Al beato Giovanni XXIII si attribuisce la celebre frase: “non siamo al mondo per custodire un museo, ma per coltivare un giardino fiorito”. Il museo è statico, perfetto, quasi noioso; il giardino è custodia attiva e passione quotidiana, rischio di intemperie e gusto della bellezza. Nella chiesa-museo sono necessari i cardinali e i custodi; nella chiesa-giardino bastano i giardinieri, ossia uomini e donne che affrontino con coraggio la vita, confidando nella presenza del Signore. Di Dio e dei suoi misteri si ama spesso parlarne come di ciò che sta all'origine, al tempo passato: è trattare Dio come fosse un oggetto da mausoleo. Quando invece Dio intesse rapporti con il presente dell'uomo – il mistero del Natale – con una promessa di futuro che è già in atto. E' la presenza di un Dio “che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, ci si disorienta”. La sorpresa di Dio: l'esatto contrario dell'abitudine di Dio e, forse, anche di una certa immagine di Dio pubblicizzata ad oltranza.
Papa Francesco pungola e strattona, addita e imbarazza, scompiglia e riordina. Non è un rivoluzionario, è semplicemente un innamorato fedele: di quelli che sanno che non c'è mai fedeltà senza un margine di rischio. Lo immagino come il giullare di corte di un tempo: quando in una corte la situazione si bloccava, si chiamava il giullare. Non era un'offesa, bensì un incarico ufficiale: era colui che godeva di piena libertà per dire cose spiacevoli e smuovere critiche fastidiose. Nella storia della Chiesa qualche giullare è diventato santo: nel suo fastidio riconobbero a posteriori un anticipo di futuro. Un Papa giullare non è un Papa ciarlatano ma un Papa con il timone della nave saldo tra le mani. Un condottiero che, per amore della sua sposa, ogni tanto la supplica di cambiarsi il vestito e di proporsi in maniera migliore. Non è civetteria, è che la forma è sempre anche uno specchio del contenuto.

(da Il Mattino di Padova, 5 gennaio 2014)

sabato 2 novembre 2013

CHIEDIMI COME SONO FELICE ...


Le nove beatitudini: la carta di identità del cristiano.

Esse riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di solidarietà. Disegnano un modo tutto diverso di essere uomini, amici dell’uomo e al tempo stesso amici di Dio, che amano il cielo e che si prendono cura della terra. Ci delineano i tratti di una santità capace di affascinarci: sedotti dall’eterno eppure innamorati di questo tempo difficile e confuso. Questi sono i santi!

Beati i miti perché erediteranno la terra: soltanto chi ha il cuore in pace garantisce il futuro della terra. Dovunque - nelle nostre famiglie, nelle comunità, nella società - possiamo vedere che solo chi ha il cuore più limpido indica la strada, chi ha molto pianto vede più lontano, chi è più misericordioso aiuta tutti a ricominciare.?Così Dio interviene nella storia. Ma come interviene??Lo fa attraverso i suoi amici; attraverso il popolo delle beatitudini. Il Vangelo ci presenta nelle beatitudini la regola della santità; non evocano cose straordinarie, ma vicende di tutti i giorni, trama di situazioni comuni, fatiche, speranze, lacrime. Nel suo elenco ci siamo tutti: i poveri, i piangenti, gli incompresi, quelli dagli occhi puri. E c'è perfino la santità delle lacrime, di coloro che molto hanno pianto, che sono il tesoro di Dio.?Le beatitudini compongono nove tratti di due volti: il volto di Cristo e il volto dell’uomo. Fra quelle nove parole ce n’è una proclamata e scritta per me e per te che dobbiamo individuare e realizzare,. Una parola che ha in sé la forza di farmi più uomo e racchiude la mia felicità. Su di essa sono chiamato a fare il mio percorso per un mondo che ha bisogno di esempi raccontabili, di storie del bene, di cuori puri e liberi che si occupino della felicità di qualcuno. E Dio si occuperà della loro: “Beati voi! Felici!”.

martedì 17 settembre 2013

IL NOSTRO DIO E' DIFFERENTE

Si perde una moneta, una pecora, un figlio. Si direbbero quasi delle sconfitte di Dio. E invece no perché l’amore vince proprio perdendosi dietro a chi si era perduto. Il Dio che emerge da queste parabole è un Dio che và dietro a uno solo. Uno solo è sufficiente a mettere Dio in cammino.?
Un uomo aveva due figli. ?Un inizio semplicissimo, favoloso, che apre una delle parabole più belle. Nessuna pagina raggiunge come questa il centro del nostro cuore, nessuna sa farci comprendere in modo così mirabile la grandezza del cuore di Dio. Un Dio differente da quello dei Farisei e diverso dall’immagine che ci portiamo nel cuore: un Padre che non vuole una casa abitata da figli servi, obbedienti ma scontenti, ma da figli liberi e gioiosi.
Due figli entrambi insoddisfatti, forse perché si credono servi. ?Il più giovane se ne va, un giorno, in cerca di felicità. Il Padre non si oppone? Ma la storia ha una svolta drammatica: il figlio si trova a pascolare i porci. Il libero ribelle è diventato servo e affamato. Affamato di pane e di altro perché l’uomo nasce con il cuore malato di cose grandi e le piccole non saziano. ?E si mette in cammino per ricevere l’abbraccio del Padre.
Il fratello maggiore torna dai campi ed entra in crisi: “io ti ho sempre servito, e tu non mi hai dato neanche un capretto”. Ha misurato tutto sulla contabilità del dare e dell’avere, come un salariato. Ti servo. Il figlio maggiore confessa tutta la sua meschinità. Chi si sente giusto mette in mostra i suoi meriti, è anche un tremendo calcolatore. La misericordia di Dio è quasi impossibile da comprendere, ma è un fatto reale. Il padre calma l’ira del fratello e lo fa ragionare; tutto ciò che il padre possiede lo possiede per darlo ai figli. Tutto!
Avrà capito? ?
Padre, anche io non sono degno, ma mi prendo lo stesso il tuo abbraccio. Sono tuo figlio. Grazie di essere Padre a questo modo, un modo davvero divino.

venerdì 23 agosto 2013

LA PORTA SPALANCATA


Sono pochi quelli che si salvano, o molti?

Gesù non risponde sul numero dei salvati ma sulle modalità. Dice: la porta è stretta, ma non perché ami gli sforzi, le fatiche, i sacrifici. Stretta perché è la misura del bambino: “Se non sarete come bambini non entrerete!”. Se la porta è piccola, per passare devo farmi piccolo anch’io. I bambini passano senza fatica alcuna.?

L’insegnamento è chiaro: fatti piccolo, e la porta si farà grande; lascia giù tutti i tuoi bagagli, i portafogli gonfi, l’elenco dei meriti, la tua bravura, sgònfiati di presunzione, dal crederti buono e giusto, e dalla paura di Dio, del suo giudizio.?La porta è stretta ma aperta.

È un mondo più bello, più umano, dove ci sono costruttori di pace, uomini dal cuore puro, onesti sempre, e allora la vita di tutti è più bella, più piena, più gioiosa se vissuta secondo il vangelo.?È aperta e sufficiente per tanti, tantissimi, infatti la grande sala è piena, vengono da oriente e da occidente e sono folla e entrano, non sono migliori di noi o più umili, non hanno più meriti di noi, non è questo.

Più Dio equivale a più io.?La porta è stretta ma bella, infatti l’attraversano rumori di festa, una sala colma, un mondo dove gli uomini sono finalmente diventati fratelli, senza divisioni.??

La porta da aperta, poi, si fa’ chiusa e una voce dura dice: “Voi, non so di dove siete”. Sono come stranieri, eppure avevano seguito la legge, erano andati in chiesa... Tutti abbiamo sentito con dolore questa accusa:??vanno in chiesa e fuori sono peggio degli altri... Può accadere, se vado in chiesa ma non accolgo Dio dentro. Dio che entra e mi trasforma, mi cambia pensieri, emozioni, parole, gesti. Mi dà i suoi occhi, e un pezzo del suo cuore. E li cercherà in me nell’ultimo giorno. E, trovandoli, spalancherà la porta.

lunedì 5 agosto 2013

IL MERCATO DEL DESIDERIO


Il Vangelo della XVIII domenica del tempo ordinario, 6 agosto, inizia con un particolare: un uomo ricco e solo. Un uomo ricco ha avuto un raccolto abbondante.? Solo: perchè non c’è nessuno attorno a quest’uomo. Ricco e al centro di un deserto perchè la ricchezza crea un deserto di relazioni autentiche. C’è un aggettivo che questo uomo ripete molte volte in questa pagina: “mio”: i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, l’anima mia.?Vivere così è un lento morire perchè di sole cose l’uomo muore. Infatti: “Stolto, questa notte morirai”.?Stolto, dice Gesù, non perché cattivo, ma perché poco intelligente. Ha investito sul prodotto sbagliato, sul denaro e non sull’amore. Vuoi vita piena, felicità vera? Non andare al mercato delle cose. Le cose promettono ciò che non possono mantenere. Sposta il tuo desiderio su altro, desidera dell’altro.

La vita di ciascuno di noi dipende da tre cose: dalla tua vita interiore, dalle persone accanto a te, da una sorgente che non è in te ma in Dio. E queste tre cose devono essere innestate tra loro. Allora sei vivo.?

Si racconta che un giorno arriva nella cella di un Monaco un visitatore. Conversando gli domanda: come mai hai così poche cose nella tua cella? Un letto, un tavolo, una sedia, una lampada. Il monaco replica: e tu come mai hai solo una sacca con te? Ma perché io sono in viaggio, risponde il visitatore. E il monaco: anch’io sono in viaggio.

Nel viaggio della nostra vita siamo chiamati ad avere uno sguardo profondo all’essenziale per cogliere la verità e la bellezza delle cose. Di tutte le cose.

mercoledì 31 luglio 2013

ACQUA E FAGIOLI. LA RICETTA DI PAPA FRANCESCO


L'uomo è così inarrestabile che, c'è da giurarci, da qualche parte del mondo c'è un Golgota e una Croce che gli stanno preparando: è una logica dalla quale non fu esente nemmeno Cristo che, anzi, ne fu il capostipite. Non per questo papa Francesco deciderà di fermarsi: a chi è avvinto dall'amore di Cristo - “l'amore di Cristo ci spinge”san Paolo - le graticole fumanti e i supplizi dei patiboli altro non sono che la gioiosa occasione di testimoniare al mondo dove conduca la follia dell'Amore. E' bastato poco più della sua presenza per stregare il cuore dei giovani: essi – gente dal palato fine in tema di contraffazioni – hanno scorto in lui l'uomo che addita ai grandi ideali senza per questo offrire facili scorciatoie: “sei protagonista della salita – ha ricordato Francesco ai ragazzi che sono stati vittima della droga – e nessuno può farla al posto tuo”. Li inchioda alle proprie responsabilità, non offre loro il facile guadagno dei pensieri comuni, li spinge e li costringe a cercare il meglio di loro stessi e in loro stessi; loro intuiscono la sua pedagogia di padre e di maestro, forse non condividono proprio tutto, ma sentono nel cuore che quelle parole – impreziosite da una voce che sale dai bassifondi della società – sono dure da contrastare e da smantellare. Forse aveva proprio ragione Pietro quando, libero di andarsene dalla sequela del Maestro, fu costretto a dirGli la verità: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Che è come dire: “dopo che ti ho conosciuto, scelgo te che sei la gioia. Non posso più accontentarmi delle piccole gioie”. Troppi dicono che oggi i giovani non hanno più voglia di sognare: Francesco, invece che lamentarsi, tende loro la mano e ad ognuno è come se dicesse “coraggio, puoi farcela!”. Con l'accredito d'infondere in loro quella passione della vita che è il biglietto da visita del Vangelo.
Conquista i giovani ed infastidisce gli adulti, vescovi compresi (“che brutta cosa un vescovo triste” - ha confidato ai giovani l'altra sera). Li infastidisce con eleganza, con quell'appeal amabile e sorridente di chi avverte di non aver rubato il posto a nessuno, ma di essere andato ad abitare spazi che il mondo adulto ha abbandonato. Infastidisce, forse, anche un certo modo di essere Chiesa: critica quella fede che è come un “frullato”, quei cristiani con le facce funebri, quel sorriso forzato tipico di chi immagina di avere un posto prenotato in Paradiso. Più che le parole a infastidire sono i suoi gesti: eclatanti perchè inediti, imbarazzanti perchè veri, tuonanti perchè silenziosi. Ad una Chiesa rattrappita nelle sacrestie getta addosso l'odore del gregge; ad una parrocchia chiusa in se stessa e nei suoi bans attacca addosso l'immagine faticosa della periferia; ad un cristianesimo abituato e sonnolento grida nelle orecchie “bota fè” (“metti la fede”). Ai salamelecchi di corte – o di sagrato – preferisce l'odore del crack addensato nella pelle dei giovani tossicodipendenti, alle vesti filettate preferisce di gran lunga le pelli sgualcite dei detenuti malmenati, al lusso degli episcopi ama di gran lunga la nuda povertà di una baracca della favela di Varginha. Alla teologia dei dotti – che rimane “dei dotti” e basta – ama il linguaggio semplice di chi, per spiegare l'ospitalità evangelica, dice: “si può sempre aggiungere acqua ai fagioli”. Un Papa fastidioso perchè di Dio.
Scrutavo l'imbarazzo nel volto di tanti vescovi in questi giorni; m'incuriosiva la stizza (ovviamente celata) di qualche prete; m'appassionava il commento di una certa chiesa. Su tutto, però, a stregarmi è lo stile di Francesco; di quell'uomo strappato alla “fine del mondo” per governare il mondo con lo stile di Dio. Fine della vecchia cristianità? Sicuramente di un certo cristianesimo.

(da
Il Mattino di Padova, 28 luglio 2013)

lunedì 8 luglio 2013

LA BARCA DI FRANCESCO, IL PROFUGO DI DIO



 
  Arriverà dal mare, scortato dalle barche degli isolani. Lui, Papa Francesco, come loro, profughi dalla pelle scottata dal sole e bruciata dalla salsedine del mare. Lui e loro, più gli altri: quei vecchi isolani di Lampedusa – la “porta” dimenticata e oltraggiata dell'Europa civile – che di padre in figlio, di generazione in generazione si tramandano quell'arcana virtù evangelica che è l'arte dell'ospitalità. E tutt'intorno il resto dell'isola, a fare da corona ad un gesto di altissimo valore simbolico: le motovedette della capitaneria, le vecchie donne che riassettano le reti da pesca, i volti straniti di chi è abituato all'oblio della storia. Troppi fin d'ora sono scesi nell'isola per farsi illuminare dalle telecamere e sfruttare l'angoscia di una terra martoriata: anche Francesco scenderà con tutte le telecamere del mondo addosso, ma la loro luce servirà per fare luce su questo mistero d'angoscia e di trepidazione che da anni abita la terra isolana.
Il mare che Francesco abiterà per qualche ora – a questo Papa bastano pochi minuti per scrivere pagine che spiazzano e interpellano, ndr – è un cimitero a cielo aperto: migliaia di profughi vi sono sepolti, frammenti di umanità disperata e dispersa, storie e avventure di genti cucinate nell'attesa di un porto nel quale attaccare l'àncora della speranza. Per il Papa argentino Lampedusa è una frontiera dell'umano, una di quelle frontiere che a più riprese e con urgenza invita la Chiesa ad abitare. E lui per abitarle rompe ogni protocollo, mette a repentaglio la sua incolumità, sembra sfidare pure lui le onde dell'imbarazzo e le tempeste degli ignavi: entra nel mare, sale su una barca e giunge a Lampedusa dalla parte del molo, la “porta d'ingresso” varcata e bagnata dalla disperazione dei profughi. Quasi a confermare che Cristo batte gli stessi sentieri dei poveri, che la Chiesa – se vuole essere la Sua chiesa – deve abitare quelle onde, non deve temere l'inedito di quel mare che arreca paura a chi non crede all'inimmaginabile di Dio. Sembra fare volentieri di testa sua il Papa: e questa è la garanzia più autentica di un uomo che sa di dover rispondere solo a Dio, a quel Dio ambizioso e paradossale che l'ha strappato alla periferia del mondo per farlo abitare al centro della cristianità, con il chiaro intento di re-insegnare il linguaggio evangelico della periferia. Nel più perfetto stile della Scrittura.
Non importa se il mondo sta alla finestra e guarda i profughi arrivare: Francesco non è l'uomo dei ritardi quanto quello degli anticipi. Si farà profugo tra i profughi, insudicerà la sua tonaca dell'odore acre del mare, c'è da giuraci che stringerà al petto qualche uomo o donna gettato dalla sorte alla ricerca della fortuna. Toccherà la terra isolana e, forte delle sue metafore quotidiane, saprà dire grazie ad una popolazione che, seppur stremata e in difficoltà, continua a fare dell'ospitalità il suo biglietto da visita al mondo. E' il Papa delle sorprese ma non delle improvvisazioni: scenderà a Lampedusa qualche giorno dopo la sua prima enciclica Lumen fidei (“la luce della fede”), quasi a far memoria che la fede – come ricordava Natalia Ginzburg – non è una bandiera da portarsi in gloria, ma una candela accesa che si porta in mano tra pioggia e vento in una notte d'inverno. Magari nella notte di un mare tempestoso.
Un Papa con le vestigia dei profughi: come incipit del suo ministero s'addossò le ferite di un popolo rinchiuso dietro le sbarre di un carcere. Subito dopo additò nell'odore del gregge la misura della fedeltà a Cristo di un pastore. Ci sono gesti che valgono più di mille parole, perchè specchio di un cuore innamorato e di un pensiero divino: di questi gesti papa Francesco è poeta, ispiratore e interprete. Perchè spinto da uno Sguardo capace di inabissarsi nei meandri più arditi della storia. Fino a lambire le sponde dell'isola più lontana.

(da Il Mattino di Padova, 7 luglio 2013)